La pazienza di Mattarella a dura prova nello scontro fra la magistratura e il governo. I Graffi di Damato pubblicati sul quotidiano Il Dubbio.
Al netto di una certa enfasi apologetica che penso lo abbia più imbarazzato che compiaciuto, Sergio Mattarella si è sicuramente meritate le celebrazioni dei 10 anni dalla sua prima elezione al vertice dello Stato, dei 3 dalla sua seconda elezione, di conferma, e quando ancora ne mancano 4 alla conclusione del suo doppio mandato quirinalizio. Sono stati dieci anni obiettivamente difficili, nei quali a Mattarella è toccato, forse più dei suoi predecessori, gestire un quadro politico a dir poco volubile. Gli toccò già tra la fine del suo primo anno al Quirinale e l’inizio del secondo assistere, a dir poco, se non accelerare la fine degli equilibri politici che lo avevano portato alla Presidenza della Repubblica.
Matteo Renzi, l’artefice della sua prima elezione, bussò inutilmente alla sua porta quando, sconfitto clamorosamente nel referendum sulla riforma costituzionale, la più completa e organica di quelle sino ad allora tentate, più ancora della riforma proposta da Silvio Berlusconi, chiese a Mattarella di consentirgli con le elezioni anticipate di tradurre quel 40 per cento dei voti pur raccolti nelle urne referendarie in una conferma della propria leadership. Mattarella scelse invece la prosecuzione della legislatura. Che costò a Renzi, oltre a Palazzo Chigi, la sconfitta elettorale alla scadenza ordinaria della legislatura come segretario del Pd e, di conseguenza, la segreteria.
Ma soprattutto il residuo anno della legislatura permise a Beppe Grillo di cavalcare l’onda anti-politica portando già nel 2018 il suo movimento a Palazzo Chigi con un avvocato -Giuseppe Conte- che si definì orgogliosamente “del popolo”. Della cui esistenza tuttavia si erano accorti in pochi, senza volergli mancare con ciò di rispetto. Pure Mattarella, a sentirsene proporre il nome per l’incarico di presidente del Consiglio, si lasciò scappare la sorpresa dicendo che avrebbe preferito quanto meno uno con qualche precedente nelle amministrazioni locali.
Grillo scombussolò con la sua vittoria il campo del cosiddetto centrosinistra, ma Mattarella si trovò nel 2018 anche di fronte ad un centrodestra diverso. In cui Berlusconi aveva dovuto subire il sorpasso della Lega di Matteo Salvini e concederle un sostanziale permesso a governare con le 5 Stelle pur di evitare in elezioni anticipate l’aumento del distacco dall’alleato.
Non furono giorni e mesi facili neppure per Mattarella al Quirinale, oltre che per Berlusconi ad Arcore e per il Pd al Nazareno. Nello spazio di soli quattro anni, fra il 2018 e il 2022, sino all’arrivo di Giorgia Meloni a Palazzo Chigi con un governo arrivato quasi a metà del suo percorso ordinario di legislatura, Mattarella ha visto sfilare nella sala del Quirinale dove giurano due governi di Giuseppe Conte e uno, del tutto eccezionale, di Mario Draghi. Cioè tre governi in quattro anni, ad una media da prima Repubblica.
Ora con la Meloni, ripeto, da quasi due anni e mezzo a Palazzo Chigi, e con un centrodestra a trazione ancora più a destra di quanto non fosse avvenuto col sorpasso di Salvini sul Berlusconi ancora vivo nel 2018, Mattarella ha un quadro politico decisamente più stabile in cui esercitare il suo ruolo. Che è di garanzia e di rappresentanza dell’unità nazionale sancita dall’articolo 87 della Costituzione. Ma proprio perché si è formata nel frattempo una leadership forte di governo, non aleatoria, non a rischio di fronte ad avversari che si stanno dividendo peraltro sul problema di come affrontare le prossime elezioni, se unite o divise, il rapporto fra il governo e, più in generale, la politica e la giustizia, o la magistratura, si è fatto più caldo. Anzi, più tempestoso.
E’ un fuoco, o una tempesta, che -volente o nolente- chiama in causa anche Mattarella come presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, oltre che della Repubblica. Un fuoco e una tempesta, a dire il vero, che coinvolse anche il predecessore di Mattarella al Quirinale Giorgio Napolitano, costretto a ricorrere alla Corte Costituzionale per difendere le sue prerogative da una Procura della Repubblica. Ma la situazione oggi è persino più difficile.
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