Intervista a Perino&Vele per la mostra a Roma

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Miti personali quelli che Perino&Vele presentano nella mostra Our Myths alla galleria Anna Marra di Roma (fino all’8 febbraio 2025), a dieci anni di distanza dalla personale Handle with Care organizzata nello stesso spazio espositivo di via di Sant’Angelo in Pescheria. Trent’anni fa Emiliano Perino (New York 1973) e Luca Vele (Rotondi 1975) – vivono e lavorano a Rotondi (Avellino) – hanno dato vita ad un duo artistico segnato dalla sperimentazione delle potenzialità della cartapesta che attraversa la loro carriera segnata da grande successo internazionale. A partire da quando giovanissimi – era il 1999- esposero alla 48. Biennale Internazionale d’Arte Contemporanea di Venezia. «L’arte è colore, odore», affermano all’unisono. «L’arte è la nostra vita, il nostro respiro.»

L’intervista a Perino&Vele

Come nasce l’idea di questa mostra che già nel titolo Our Myths esprime l’omaggio ai vostri miti personali?
Luca Vele – Quest’anno festeggiamo i nostri trent’anni di sodalizio artistico. Trent’anni in cui abbiamo lavorato costantemente, tranne che nel periodo del Covid in cui abbiamo deciso di non produrre opere trattando spesso temi sociali.
Emiliano Perino – Ci siamo sempre occupati di attualità cercando di raccontare il mondo odierno.
L.V. – Però lo abbiamo fatto sempre in una forma ironica, con un doppio significato. Non abbiamo mai voluto realizzare un lavoro drammatico visivamente, ma nella storia sì. È stato anche un modo per portare il nostro essere campani – irpino-sanniti – quindi la nostra ironia nei lavori, come nel progetto Porton Down in cui abbiamo affrontato il tema delle torture sugli animali. Un lavoro che prende nome dalla fattoria creata nel Regno Unito, nel 1949, per allevare animali su cui sperimentare ogni arma, comprese quelle chimiche e batteriologiche, verificandone l’effetto che possono avere sull’uomo. Invece, per questa mostra abbiamo deciso di rappresentare quelli che sono stati i nostri miti dall’adolescenza ad oggi. Miti che appartengono anche alla nostra generazione. Così sono nate opere come Fiat 500, Bel paese

Galleria Anna Marra, Our Myths, Perino & Vele, La 500, 2024, cartapesta e acciaio, 155 x 250 x 55 cm

Spiegateci meglio…
E.P. – Voleva essere una mostra sul mito contemporaneo. I miti sono sempre esistiti, ma pensando alle antiche civiltà come quella greco-romana erano dei miti irraggiungibili, divinità, figure mitologiche. Oggi sono miti che fanno parte della nostra realtà. Si tratta di miti accessibili con cui possiamo avere un rapporto diretto.
L.V. – Come dice Peppino Ortoleva sono i miti a bassa densità.In mostra, ad esempio, c’è il simbolo del «like» che appartiene al nostro mito contemporaneo. Quanto alla Fiat 500, tutti abbiamo avuto un parente – un nonno, un genitore – che ha posseduto questo simbolo del Made in Italy. Però c’è anche un omaggio alla nostra opera forse più conosciuta, Le 500 della metropolitana di Napoli.

Un’automobile che ritorna…
E.P. – Sì, la Fiat 500 è ricorrente nel nostro lavoro. Era presente ancora prima dell’installazione del 2002 con quattro Fiat 500 ricoperte da trapunte in vetroresina e cartapesta nei corridoi della stazione Salvator Rosa.

Perino&Vele e i miti a bassa densità

Tra i vostri miti ci sono anche Maradona protagonista dell’opera Dios, Totò (Il Principe) e Raffaella Carrà (Ahahaha)…L.V. – L’idea della sagoma è nata quando il Napoli ha vinto lo scudetto. Camminando nei vicoli di Napoli si incontravano tante sagome che rappresentavano non solo i giocatori, anche i dirigenti, l’allenatore, il massaggiatore… tutti… La sagoma di Maradona è stata la prima che abbiamo realizzato. Nonostante i suoi errori, ad esempio quando fu beccato con il sacchetto di cocaina, resta comunque un mito. Quanto a Totò, di notte quando arrivava da Roma si faceva accompagnare dal suo autista nel quartiere Sanità, da dove proveniva, e infilava sotto le porte dei poveri 10mila lire. Quanto a Raffaella Carrà, negli anni Ottanta conduceva su RAI1 il noto programma televisivo “Pronto, Raffaella?” in cui i telespettatori dovevano indovinare il numero esatto dei fagioli in un barattolo di vetro. Insieme alla sua sagoma abbiamo messo un vero orcio che si usa ancora oggi, nella nostra tradizione, per cuocere i fagioli.

Galleria Anna Marra, Our Myths, Perino&Vele, Dios, 2024, cartapesta, 185 x 66 x 69 cm
Galleria Anna Marra, Our Myths, Perino&Vele, Dios, 2024, cartapesta, 185 x 66 x 69 cm

In Bel paese c’è anche il riferimento a Luciano Fabro…
L.V.Il bel paese è anche un’opera che rende omaggio all’arte povera che è un altro dei nostri miti. Viviamo in un territorio segnato dalla presenza di Mimmo Paladino, Luigi Mainolfi e Nicola De Maria inoltre nel 1993, quando ci siamo diplomati al liceo artistico, era il momento del movimento della Transavanguardia. L’arte povera l’abbiamo scoperta solo successivamente con artisti come Pino Pascali e Alighiero Boetti e l’abbiamo sentita subito molto più vicina a noi.
E.P. – Anche nel tema del riciclo siamo molto influenzati dall’arte povera.

Galleria Anna Marra, Our Myths, Perino&Vele, Il bel paese, 2024, cartapesta e ferro, 124 x 28 x 90 cm
Galleria Anna Marra, Our Myths, Perino&Vele, Il bel paese, 2024, cartapesta e ferro, 124 x 28 x 90 cm

Perino&Vele un sodalizio artistico imprescindibile

Nella vostra pratica artistica c’è una divisione di compiti?
L.V. – Non sappiamo cosa voglia dire lavorare singolarmente perché abbiamo sempre lavorato insieme. Ci siamo conosciuti al liceo artistico di Benevento. Nel primo anno eravamo in sezioni diverse ma ci furono molti bocciati, per cui le due classi vennero accorpate e ci ritrovammo insieme con la voglia comune di fare arte. Già allora iniziammo a fare delle sperimentazioni. Non avendo tanti mezzi economici scoprimmo la cartapesta che per noi era un materiale talmente povero ed effimero, non usato nell’arte contemporanea, che cercavamo di mascherare in tutti i modi. Parlo dei primi lavori che sono in pochissimi a conoscere, sembravano dei bassorilievi molto colorati e pop.

Raccontateci meglio…
E.P. – Erano lavori molto pittorici.
L.V. – Ci vergognavamo della cartapesta, perciò nascondevamo questo materiale. Anche perché avevamo colleghi di scuola che già realizzavano fusioni in bronzo. Però il giorno dell’esame, dopo aver sostenuto la maturità, partimmo subito per andare a vedere la Biennale di Venezia che era curata da Achille Bonito Oliva. Ricordo il padiglione della Germania con il pavimento tutto sconnesso, ricoperto di macerie opera di Hans Haacke. In quell’occasione ci dicemmo che anche noi avremmo esposto alla Biennale di Venezia. E così è stato!

Ah sì?
E.P. – Sei anni dopo abbiamo esposto alla Biennale del ’99.Luca era anche il più giovane artista. Aveva 24 anni.

Qual era l’opera che avete esposto alla 48. Biennale Internazionale d’Arte Contemporanea di Venezia?
L.V. – Partecipammo a quell’edizione con Pelle d’elefante, un’opera del 1998. Alfonso Artiaco, il nostro gallerista di Napoli, aveva invitato Harald Szeemann a visitare il nostro studio, dopo che si erano incontrati a Parigi dove il curatore vedendo dei nostri lavori li aveva definiti interessanti.
E.P. – Szeemann andava in giro a selezionare i lavori.

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E come è andato questo studio visits?
L.V. – Durò forse un’ora e mezzo, parlammo e poi, mentre Szeemann stava andando via all’esterno vide Pelle d’elefante. «Agnes abbiamo un metro?» Chiese all’assistente Agnes Kohlmeyer. In quel momento il nostro gallerista capì che era fatta.
E.P. – Eravamo giovanissimi ed emozionati, sembrava tutto così irreale.

Altri risultati?
L.V. – In quel periodo successero tante cose. Quell’anno Sergio Risaliti ci offrì una sala a Palazzo delle Papesse a Siena, poi ci fu la Biennale di Venezia e l’anno prima Alfonso Artiaco aveva venduto tutte le nostre opere ad Art Basel.

Qual è stato il punto di partenza del vostro sodalizio artistico?
L.V. – Finito il liceo ci chiedemmo cosa fare. Perché non mettere su uno studio? Iniziammo a cercare uno spazio dove poter lavorare. Mio padre ci suggerì di acquistare i container per i terremotati che del terremoto dell’Irpinia del 1980 che stavano smantellando. Così anche lo studio, alla fine, è stato riciclato. Nel 2012 lo abbiamo ristrutturato con l’aiuto di due architetti concependolo come una scultura in cui abbiamo messo un po’ della nostra ironia.
E.P. – E del nostro fare arte…
L.V. – Riflettendo su come realizzare i nostri lavori, trovammo che la carta avesse tante potenzialità. All’inizio per farli asciugare li mettevamo vicino a stufette a gas a parabola e spesso prendevano fuoco. Anche le tracce di bruciatura, come tutto quello che succede durante la lavorazione, è diventato la pelle del lavoro, come le viti e i chiodi che usavamo per fermare le formelle sulla struttura.

Anche l’imprevisto, quindi, diventa parte dell’opera?
E.P. – Sì, diciamo più la casualità.
L.V. – Adesso è una casualità più controllata. Non so se è un bene o un male.
E.P. – Dopo trent’anni si conosce bene il proprio lavoro.

La sensibilità al significante e al significato di Perino & Vele

Come si pone la vostra pratica artistica rispetto all’uso tradizionale della cartapesta?
L.V. – In Campania c’è una grande tradizione nell’utilizzo della cartapesta da parte degli artigiani, ma noi ci teniamo a sottolineare che la carta che usiamo è diversa. La pasta stessa è diversa. La nostra è molto dura tanto che, certe volte quando dobbiamo modificare un lavoro, abbiamo bisogno del flex per tagliarlo.

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Dall’idea alla realizzazione dell’opera, seguite una precisa metodologia?
E.P. – Prima di tutto l’idea viene schizzata su un foglio, poi cerchiamo di capire come realizzare l’opera.
L.V. – A volte ci chiedono chi dei due ha fatto una cosa o l’altra, ma questo è un aspetto che non ci interessa. Siamo tra le poche coppie artistiche in cui siamo solo soci, non c’è una relazione di altro genere. Viviamo anche in case differenti ma quando ci incontriamo in studio è incredibile perché ci ritroviamo a pensare la stessa cosa. Siamo cresciuti insieme. A quel punto si tratta più di limare piccole cose per procedere con la produzione del lavoro.

A proposito dell’acquisizione dei materiali, molte persone del paese collaborano portandovi giornali vecchi o altri materiali cartacei…
L.V. – Adesso sta diventando sempre più difficile ma un tempo, vivendo in un piccolo paese dove tutti sapevano del nostro lavoro, ci venivano offerti molti materiali. Le banche, ad esempio, ci davano Il Sole 24 Ore e Italia Oggi. Abbiamo anche fatto richieste mirate perché il colore delle opere dipende dalla selezione delle carte. In base all’effetto che vogliamo ottenere, le carte possono essere mescolate ma non c’è mai l’aggiunta del pigmento.
E.P. – Il colore è solo quello della carta.

E quindi come procedete?
L.V. – La cosa che per noi è importante non è usare carta vergine ma carta stampata. Abbiamo un grande frullatore modificato da noi che riempiamo di acqua e carta. Abbiamo bisogno di vedere le parole dell’informazione che vengono triturate per diventare la nostra informazione, il nostro messaggio. Oggi abbiamo padronanza del materiale, quindi in base alla tonalità che vogliamo ottenere riusciamo a capire se far essiccare la carta al sole o all’interno per farla ingiallire di più o di meno. Usiamo anche volantini e manifesti colorati. In alcune opere ci sono La Gazzetta dello Sport, Il Mattino… oppure se vogliamo un lavoro totalmente bianco maciniamo carta da fotocopie. Abbiamo anche scoperto i biglietti della Lottomatica da cui esce il colore rosa. A volte nell’opera si vedono anche piccole lettere che non sono state macinate.

Qual è l’importanza del tempo nell’intero processo?
E.P. – Il tempo è importante soprattutto d’inverno quando fa freddo e ce ne vuole di più per far essiccare la carta.
L.V. – Abbiamo un essiccatoio ma preferiamo sempre fare le mostre dopo l’estate, in modo da poter lavorare con il caldo.

C’è anche un senso di responsabilità nell’affrontare determinate tematiche sociali?
L.V. – Il nostro obiettivo è sempre stato quello di fare controinformazione, portando alla luce cose che non sono molto conosciute.
E.P. – Poi, però, sta ai politici occuparsene.
L.V. – Soprattutto quando abbiamo lavorato al progetto Porton Down, che è durato anni, ne siamo usciti provati. Ma ci sono anche progetti come Happy Brico, alla galleria Alfonso Artiaco nel 2019, in cuici siamo proprio divertiti. A volte si ha bisogno anche della giocosità nel lavoro, altrimenti ci si incupisce.

Manuela De Leonardis

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Sostenibilità non vuol dire che non si investe, ma che si generano ricavi reinvestiti”. Il tifoso non c’entra nulla, perché girano numeri a casaccio. Ad esempio sugli innesti. Parliamo di cifre reali che entrano nel club, per Pongracic sono entrati 10 milioni e per Gendrey poco più di 6. Si riduce di parecchio. Grazie al lavoro dei direttori abbiamo fatto cessioni importanti, incassando escluso Dorgu 40 milioni effettivi, spendendone 42. Però io so che quei 42 diventeranno 200. Il tifoso sbaglia perché ha numeri sbagliati, c’è chi dice che ci mettiamo i soldi in tasca. Affrontiamo questo tema, perché ai tempi di Semeraro si ruppe tutto dicendo che se li intascavano anche se avevano in realtà perso 100 milioni. Il tifoso può stare tranquillo, i soldi di Dorgu verranno reinvestiti. E’ un tema che verrà sgomberato. Abbiamo fatto un accordo con l’Ordine dei commercialisti e metteremo a disposizione un professionista per ogni curiosità che i tifosi possano avere. Dorgu verrà pagato in 5 anni, perché anche i grandi club come il Manchester United chiede le rateizzazioni. Quindi noi ora ci troviamo a giocare un campionato sudatissimo, è una bella stagione, sono carico in questo momento storico. Dobbiamo stare tutti uniti, guardare a Parma quanto abbiano inciso i tifosi”. Io credo che sul mercato le abbiamo provate tutte. Io credo che abbiamo fatto un mercato da Lecce, spendendo 2 milioni per giocatori validi. Magari se lo stesso giocatore viene pagato 8 il tifoso è contento. Pensate a Pierotti, lo scorso anno si diceva non avessimo fatto abbastanza perché avevamo acquistato lui a 1,2 milioni. Se oggi me lo chiedono a 8 milioni io non lo do, quindi credo che per quelle che sono le nostre possibilità e caratteristiche il Lecce provi sempre a fare il massimo. Ovviamente siamo in piena regola anche con i rapporti con il fisco. Sui costi delle cessioni sono tanti gli aspetti ad influire ed è giusto parlarne. Prendiamo ad esempio Gendrey, perché giocatori così li puoi avere a zero come fatto da noi se poi fai degli accordi come riconoscere percentuali future al club che te lo cede ma anche agli intermediari che possono aver favorito la trattativa. Sono tanti gli aspetti da prendere in considerazione. Poi non dimentichiamo che ci troviamo in una Serie A complicatissima, con di fronte club che investono cifre importanti come Como, Parma e non solo. Non dimentichiamo che si è parlato tanto di fair play finanziario, un tetto che noi ci siamo auto imposti perché è importante per stare in salute come club. Siamo stati criticati perché parliamo del centro sportivo magari dopo una sconfitta. Non dobbiamo farci trascinare dal risultato del momento, un club come il nostro deve convivere con la sconfitta. Non dobbiamo fermarci all’oggi, serve visione a lungo termine. Non so perché il centro sportivo sia stato preso in antipatia da alcuni, io non mi stancherò mai di sottolineare invece l’importanza di alcune cose perché sono sintomo di salute e lungimiranza. Il centro sportivo ti porta meno infortuni, quindi punti. E’ importante e non dobbiamo farci prendere troppo dalle difficoltà del momento”.