Sei ore di “processo” ad Arcuri e alle mascherine: la Commissione Covid cerca di riscrivere la pandemia

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Un sorta di “interrogatorio” serratissimo durato oltre sei ore, senza possibilità di respiro, con appena 5 minuti di interruzione probabilmente per raggiungere i servizi, persino a stomaco vuoto. Quella di oggi è stata un’audizione della Commissione Covid insolitamente affollata e il motivo era seduto al fianco del presidente Marco Lisei. È stato ascoltato Domenico Arcuri, ex commissario straordinario per l’attuazione e il coordinamento delle misure di contenimento e contrasto della pandemia all’epoca del Conte III. La Commissione ha dibattuto dalle 11 di questa mattina fino alle cinque passate del pomeriggio, con buona parte del tempo investito in un battibecco tra la presidenza, affidata appunto al meloniano Lisei, e le forze politiche dell’opposizione: tra accuse di ostruzionismo, da un lato, e di imparzialità, dall’altro. Dal Movimento 5 stelle qualcuno si è preoccupato che all’ex Commissario fosse data l’opportunità di rifocillarsi, ipotizzando che il presidente non avrebbe concesso neppure la clemenza di un rapido boccone.

Sarà stato un calo di zuccheri, ma è proprio intorno all’orario di pranzo che i toni si sono scaldati. Col pretesto di parlare dell’ordine dei lavori, il Movimento 5 stelle – con Giuseppe Conte in prima linea – ha più volte interrotto la seduta, chiedendo che venisse sospesa, sostenuto da Italia Viva e Pd. Perché iniziava la convocazione alla Camera, perché i capigruppo erano impegnati in una riunione, perché c’era tanto da dire e il tempo non bastava. No, no e no: noncurante delle proteste, andate avanti per oltre mezz’ora, il presidente Lisei ha difeso a spada tratta la sua intenzione di rimanere inchiodato alla sedia, con Arcuri seduto al suo fianco. “Dovrebbe essere più al di sopra delle parti nella sua conduzione”, l’accusa che è partita dai banchi di Palazzo San Macuto. “Lei è la garanzia di tutti i membri della Commissione”, il richiamo all’ordine. Ma Lisei ha chiuso gli occhi ed è andato avanti per altre tre ore, difendendosi: “Il presidente brutto e cattivo ha dato la parola a tutti più volte”.

Al centro del processo ci sono Domenico Arcuri e le popolarissime mascherine del periodo Covid. Arcuri che racconta come all’epoca della pandemia ogni minuto della sua vita, giorno e notte, fosse impegnato nell’affannosa ricerca di quelle mascherine, di cui l’Italia non disponeva e aveva disperatamente bisogno. Fratelli d’Italia e Lega che su quelle mascherine gettano sospetti: perché sono diventate indispensabili da un giorno all’altro? Ma davvero, davvero, davvero, dopo luglio 2020 non sono più state acquistate all’estero? Può escludere che qualcuno non si sia arricchito grazie a queste mascherine? Insomma, mentre l’Italia e il mondo intero erano stati gettati nel caos da un’emergenza sociosanitaria, qualcuno nell’angolo si sarebbe riempito le tasche, chissà se con la complicità di chi dirigeva i lavori politici all’epoca. L’origine di questi “qualcuno”, si allude, potrebbe essere straniera, e in particolare cinese.

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Per Arcuri l’audizione è stata un’opportunità di ribattere punto per punto alle accuse che in quella stessa sede gli sono state mosse da Dario Bianchi, fondatore e amministratore di Jc Electronics (Jce). Il Tribunale di Roma ha riconosciuto in primo grado un danno di 203 milioni di euro alla Jce, con sede a Colleferro, che ai tempi del Covid aveva riconvertito la sua produzione per includere quella delle mascherine, utilizzate per difendersi dal virus. La struttura commissariale scelse a un certo punto di interrompere i rapporti con l’azienda, da cui si riforniva di dpi: un diritto di recesso, sostiene Arcuri, esercitato a causa di alcuni lotti risultati non a norma. La risoluzione del contratto per la Jce sarebbe invece dovuta alla volontà di estromettere l’azienda dal circuito dei fornitori per siglare altri accordi con soggetti diversi, tra cui un’azienda cinese produttrice di mascherine false. L’accusa di Bianchi è che l’allora commissario fosse a conoscenza dell’inadeguatezza di quei dispositivi provenienti da Pechino.

Il giorno dell’audizione è stato preceduto da un’intervista rilasciata dall’ex commissario a Repubblica, nella quale aveva già fornito la sua versione dei fatti. Su una frase in particolare si soffermano e chiedono conto in Commissione: “Io e i miei collaboratori, che mi sono restati vicino in questi anni, abbiamo ricevuto molte telefonate, con proposte di fornitura. Anche da politici, soprattutto quelli che erano più lontani dalla gestione dell’emergenza e che magari facevano parte di formazioni politiche più piccole. Sono sempre stati gentilmente respinti”. L’identità dei politici in questione, nonostante la richiesta, non viene svelata da Arcuri, tra le proteste della renziana Raffaella Paita che ipotizza la possibile configurazione del reato di traffico di influenze. Senza prove non posso parlare: è in sintesi la replica dell’ex commissario, che lascia intendere l’intenzione di raccogliere il materiale necessario a muovere accuse.

“Credo che questa Commissione d’inchiesta abbia il dovere di approfondire le questioni sollevate dall’intervista rilasciata ieri dall’ex Commissario”, tuona anche il leader del Movimento 5 Stelle ed ex premier, Giuseppe Conte, che per Arcuri spende parole di stima, dicendosi pronto, se potesse tornare indietro a rinominarlo “altre cento volte”: “Era a capo di Invitalia, unica nostra partecipata pubblica a conoscenza di tutto il tessuto produttivo italiano. Non avendo a disposizione dpi e macchine respiratorie l’unica possibilità per salvarci era un’autoproduzione. Da qui la scelta di un manager che poteva rafforzare in questa direzione quello che già aveva fatto la struttura di Protezione civile”. Dal canto suo Arcuri – che di come si è svolta la vicenda Jc si assume “tutta la responsabilità” – esonera Conte da eventuali coinvolgimenti nella questione: “Pensare che il presidente del Consiglio e il commissario dell’emergenza interloquissero su questo o su ogni altra fornitura significante continua a offendere quella stagione, il dramma che il presidente del Consiglio, il commissario all’emergenza e quanti altri vivevano in quelle ore, l’ansia della mancanza del tempo che non avevano, lo sforzo di rispondere a problemi nuovi e sconosciuti”.

La seduta si è sciolta tra le polemiche alle 5 e un quarto, con queste premesse: “Non possiamo sequestrarlo qui oltre”, le parole pronunciate dal presidente Lisei, riferite ad Arcuri, costretto alla fuga da preannunciati impegni inderogabili. Ma è solo una pausa. Altro round convocato in serata, il processo continua.



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