31 Gennaio 2025
Nella prova durissima della «campagna di Russia» Eugenio Corti aveva forgiato il suo giudizio sui totalitarismi, ma soprattutto aveva maturato la certezza che la storia umana si regge sulla vulnerabilità della fede.
«Per Corti solo Dio non censura, solo Dio permette la piena narrabilità della storia, solo in Dio le contraddizioni del cuore umano vengono abbracciate da un Disegno buono. Così i dolori e perfino gli orrori aprono all’impossibile speranza, il più pacificante tra tutti i sentimenti umani».
Così scriveva l’8 febbraio 2014 il cardinale di Milano Angelo Scola nel suo Messaggio per la morte di Eugenio Corti. In queste poche righe veniva condensato il senso di un’opera monumentale (per dimensioni e significato) che aveva attraversato tutto il XX secolo, ripercorrendone i momenti storici più tragici (la vicenda del totalitarismo), con il loro impatto su una nazione (l’Italia che di quella vicenda era stata protagonista e vittima a un tempo) e sui suoi cittadini (che da quella tragedia avevano saputo riscattarsi e rinascere dopo averla tollerata, se non provocata). E prima ancora il cardinale Scola aveva precisato più in dettaglio di che cosa Corti aveva trattato nella sua opera:
«L’interminabile dolore che gli uomini causano agli uomini, per la crudeltà senza giustificazione (Auschwitz, il Gulag) e per quella che viene spacciata come giustizia (Hiroshima, Dresda)».
Basterebbe questo per spingere a leggere (o rileggere) l’opera principale di Eugenio Corti, quel Cavallo rosso che con le sue oltre mille pagine è arrivato a quasi quaranta edizioni ed è stato tradotto nelle principali lingue europee; basterebbe questo perché, come nella nostra vita di tutti i giorni, in questo libro c’è tutta la tragedia alla quale gli uomini non sanno rispondere: quella di un male imperdonabile e quella dei mali che vengono provocati con l’illusione di poter risolvere e superare il male che ci lascia increduli e impotenti. Corti, come ci ricordava ancora il cardinale, aveva indicato una via per tentare questo superamento, la via di quel «nucleo incandescente di amore [che] circonda da ogni parte il male con il bene», la via «dell’Onnipotenza di Dio che sceglie di farsi Impotente sulla Croce. L’amore si vuota per accompagnare la libertà dell’uomo e salvarla».
Il bel libro di Elena Rondena (Eugenio Corti. Verità e bellezza, Ares, Milano 2024), che riprende queste parole chiave, mostra l’origine dell’opera complessiva di Corti con una sua rivisitazione precisa e documentata, mostrando innanzitutto la sua «passione per la realtà», un bisogno di partire «sempre dal reale» (sia che si trattasse di raccontare tragedie sia che si trattasse di raccontare fiabe) la cui radice viene colta nel concetto guida di un altro grande romanziere cattolico, quel Manzoni che parlava del «santo vero»; e non perché santificava la realtà in quanto tale, ma perché vedeva nel creato anzitutto l’opera di Dio, la cui impronta non poteva mai essere cancellata definitivamente dalla malvagità umana, così che, se mai, l’uomo aveva la responsabilità di riparare quello che aveva cercato di deturpare.
Così l’autrice ripercorre la reazione di Corti di fronte alla tragedia della guerra, indicando l’assunzione di responsabilità che era subentrata dopo le prime illusioni, quando Corti e i suoi giovani commilitoni, gettati nell’inferno della campagna di Russia, arrivati sul confine polacco «rimangono turbati dalla brutalità e dalla crudeltà dei tedeschi a danno degli ebrei. Non riescono a credere che stanno andando a combattere accanto a questo corpus militare dai tratti disumani»; non che questo annullasse in qualche modo la coscienza della persecuzione bolscevica «che mirava a strangolare la Chiesa», ma il giudizio sulla realtà si faceva più complessivo e oggettivo, cancellando ogni utopia, tanto più quelle basate sulla presunzione dell’uomo di poter creare con le sue sole forze, se non già il paradiso in terra, anche solo «un mondo senza ingiustizia».
È un tema, questo, che viene sviluppato dall’autrice nella sua dimensione più comprensiva, nella quale non v’è spazio per alibi che potrebbero permettere a una qualunque ideologia di sottrarsi alle proprie responsabilità; come lo stesso Corti avrebbe detto, in un intervento della fine degli anni Ottanta, presentando al Meeting di Rimini il suo grande romanzo: «Tutto quello che noi avevamo intorno era inficiato dall’Illuminismo marxista e fascista. […] Purtroppo, anche tanta parte della cultura cattolica si era accodata. (…) Non c’erano solo l’Illuminismo nazista e quello marxista, ma c’era anche quello materialista democratico, quello consumista».
Era un’acutezza di giudizio che veniva recuperata in una lucidità nutrita da una lunga esperienza e da un approfondimento intellettuale mai interrotto (fatto di una continua analisi del pensiero moderno), ma giustamente Elena Rondena mette in luce anche l’origine più profonda di questa acutezza: come Corti aveva imparato nella lunga esperienza di vita e soprattutto nella dolorosa esperienza della guerra, là dove si cercava di superare le pretese autonomistiche dell’uomo, quello che era essenziale era innanzitutto recuperare una libertà autentica, paradossalmente ritrovata in un recupero della dipendenza dal Signore, che aveva nella preghiera il suo sostegno personale e sociale, come Corti sottolineava parlando del rosario («la preghiera sociale per eccellenza»), recitato in forma comunitaria e in condizioni estreme come potevano essere, appunto, quelle della prima linea e, ancor di più, quelle di una sacca durante la campagna di Russia: «Sotto un massacro così, alla sera quando scendevano le tenebre, dopo mangiato il rancio, io riunivo i soldati della mia casetta, con quei cinque ufficiali che erano con me (…), e recitavamo il rosario».
E la preghiera non era solo il sostegno della vita quotidiana, ma anche la verifica della verità della propria professione di fede, perché, osserva Rondena, «la fede è autentica se plasma il proprio vissuto» e se nulla le sfugge, arrivando anzi a investire la vita personale e tutto l’universo, così che per Corti, in questa esperienza, «tutto ha un valore sacro: la sua vita e quella dei suoi soldati, che ama come se fossero i suoi figli, ma anche tutte le cose materiali necessarie per sopravvivere in quel contesto, quali il cibo, le calze, i guanti, le coperte, la sua è una “fede di cose”». E sono cose, come quelle che abbiamo appena enumerato, molto concrete, il cui significato non era messo alla prova di un esercizio intellettuale, ma a quello della semplice e radicale sopravvivenza, così che
Corti, ripensando alle sue vicissitudini di soldato combattente, potrà dire: «Siamo vissuti per tanti gesti di carità».
E al culmine di questo esercizio concreto di carità personale e sociale, che è salvezza della persona nella sua concretezza e nella sua libertà di giudizio, quello che viene ritrovato è l’umano nella sua pienezza: Corti aveva sviluppato una sua precisa valutazione delle idee e delle ideologie contemporanee – e del sistema sovietico in particolare, denunciato in quel piccolo capolavoro che è Processo e morte di Stalin (1962) – ma sarebbe riduttivo fermarsi a questo livello di lettura. Come ricorda ancora l’autrice, citando un critico dell’opera di Corti: «L’etichetta di scrittore cattolico è un vestito stretto per Eugenio Corti. Non perché non lo fosse, ma il suo romanzo dal respiro lungo, ancora quasi ottocentesco, è una narrazione corale che appartiene all’umanità prima di ogni altra cosa».
E anche questo appartenere «all’umanità prima di ogni altra cosa» è l’indizio di quello che è in gioco nella lettura di Eugenio Corti.
(Immagine d’apertura: Facebook)
Adriano Dell’Asta
È docente di lingua e letteratura russa presso l’Università Cattolica. Accademico della Classe di Slavistica della Biblioteca Ambrosiana, è vicepresidente della Fondazione Russia Cristiana.
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