Il Parlamento europeo ha individuato le cause di tale divario retributivo nei ruoli di genere che vengono tradizionalmente veicolati dalla società, come il fatto che le donne sono sovrarappresentate in settori relativamente a basso salario, occupano meno posizioni dirigenziali, svolgono più ore di lavoro non retribuito, ricoprono maggiori posizioni part-time rispetto agli uomini, e sono più propense ad avere interruzioni di carriera.
Come ha spiegato a Facta Nicoletta Pannuzi, dirigente del Servizio sistema integrato lavoro, istruzione e formazione dell’Istat, il GPG non può essere l’unico indicatore a cui si fa riferimento perché «il dato che definisce il gender pay gap osserva la retribuzione oraria lorda di uomini e donne e in questo numero non rientrano elementi come il tipo di contratto, determinato o indeterminato, il lavoro part-time o full time, che sono tutti elementi che poi vanno a definire la retribuzione mensile o annuale». Si tratta di un dato che «misura la differenza retributiva di uomini e donne ed è calcolato come differenza percentuale tra la retribuzione oraria di uomini e donne rapportata a quella maschile».
Il divario retributivo di genere in Italia
Per quanto riguarda l’Italia, Nicoletta Pannuzi ha continuato chiarendo che in termini di retribuzione oraria si osserva che le donne, nell’ultimo dato disponibile relativo al 2022, «sono retribuite il 5,6 per cento in meno degli uomini». La retribuzione oraria media degli uomini, infatti, è di 16,8 euro, mentre la retribuzione media delle donne è 15,9 euro. Pannuzi ha sottolineato che è importante ricordare che «questo dato ovviamente è al lordo di tutte le differenze che riguardano l’accesso e le caratteristiche di permanenza e ingresso nel mercato del lavoro di uomini e donne».
Nel confronto internazionale il dato italiano risulta più basso rispetto alla media europea che si attesta attorno al 13 per cento. Ma perché è così basso? Perché la partecipazione al mercato del lavoro nel nostro Paese incontra una partecipazione femminile particolarmente importante in alcuni settori e in particolare nel settore dell’istruzione. «In questo ambito la retribuzione oraria è particolarmente elevata» ha chiarito Pannuzi, «poiché viene calcolata sull’orario contrattuale, che nel caso degli insegnanti è un numero di ore particolarmente ridotto poiché vengono considerate le ore di insegnamento ma non tutto l’altro tempo che gli insegnanti dedicano alla propria attività professionale, come ad esempio la correzione dei compiti o la preparazione delle lezioni».
Più in generale, è importante evidenziare che il dato che riguarda il divario retributivo di genere non può essere considerato come univoco e descrittivo di tutta la realtà, perché varia se guardiamo a settori specifici del mercato del lavoro. Ad esempio, se si suddivide il GPG tra il comparto a controllo pubblico – cioè l’insieme delle istituzioni pubbliche e delle imprese a prevalente controllo pubblico – e quello a controllo privato – ovvero l’insieme delle unità economiche, imprese e istituzioni, private sulle quali il controllo privato è totale o prevalente – si nota che nel comparto a controllo privato il GPG è pari al 15,9 per cento, mentre nel comparto a controllo pubblico scende al 5,2 per cento. In quest’ultimo, infatti, le donne sono la maggioranza, sono cioè il 55,6 per cento dei dipendenti, hanno un elevato livello di istruzione e la più alta retribuzione oraria. Questo, secondo Nicoletta Pannuzi, «porta il valore complessivo a livelli relativamente bassi, anche se in realtà il valore del comparto a controllo privato ha un valore decisamente più alto».
Ci sono altre caratteristiche che vale la pena riportare rispetto al GPG, ad esempio che questo divario si allarga con l’età e quindi significa che aumenta con il progredire della carriera e dell’anzianità anche all’interno dello stesso ente o azienda. «Il gender pay gap è piuttosto basso quando le donne entrano nel mercato del lavoro» ha spiegato Pannuzi, chiarendo cioè che «se noi calcoliamo il GPG rispetto ai lavoratori più giovani, vediamo che il valore è di circa il 3 per cento se parliamo di under 25, sale al 9 per cento tra i 55 e i 64 anni, e supera il 14 per cento tra i lavoratori di età e superiori ai 65 anni». Questo avviene per una serie di fattori. Innanzitutto perché da un lato le donne, più spesso degli uomini, dedicano maggior tempo al lavoro non retribuito, come quello casalingo e quello di assistenza gratuita (ad esempio i lavori di cura rivolti alla prole o ai parenti anziani). Inoltre, spesso le donne interrompono la propria carriera a seguito della nascita dei figli oppure per esigenze o necessità familiari.
Infine, un’altra caratteristica di questo dato è che il gender pay gap tende ad ampliarsi tra i laureati, con un valore del 16,6 per cento: la retribuzione media oraria è di 20,3 euro per le donne e di 24,3 euro per gli uomini; ma anche tra i dipendenti con al massimo la scuola secondaria inferiore (dove il valore del GPG è del 15,2 per cento), anche se i salari orari sono decisamente più bassi (11,1 euro per le donne e 13,1 euro per gli uomini). Il divario salariale cresce soprattutto nei settori dove ci sono meno donne. Ad esempio, tra i dirigenti, le donne guadagnano in media il 30,8 per cento in meno rispetto agli uomini, con una retribuzione oraria di 34,5 euro per le donne e 49,8 euro per gli uomini. Un altro settore in cui il gap è significativo è quello delle Forze Armate, con una differenza del 27,7 per cento. In questo caso, le donne guadagnano 16,9 euro all’ora, mentre gli uomini 23,4 euro. Infine, anche tra gli artigiani e gli operai specializzati c’è una disparità, con un gap del 17,6 per cento. Qui, le donne guadagnano 10,6 euro all’ora e gli uomini 12,8 euro. Secondo Nicoletta Pannuzi, «il fatto che in alcuni settori le donne siano poco diffuse, determina anche situazioni di gender pay gap più elevato».
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