A seguito di una campagna elettorale presidenziale per dir poco vivace, il 20 gennaio di quest’anno inizia il mandato quadriennale dello statunitense repubblicano Donald Trump. Il caso vuole che l’inaugurazione del neoeletto, il cui mandato non sarà privo d’influenza sulla politica di Washington con inevitabili risvolti internazionali, si svolga in data così vicina al decesso, avvenuto il 29 dicembre 2024 all’età di cento anni, del democratico Jimmy Carter, presidente degli Stati Uniti per un unico mandato dal 1977 al 1981.
La vittoria dei rispettivi presidenti riporta alla mente il concetto di “corsi e ricorsi storici” formulato da Giambattista Vico e quindi stimola la riflessione sul rispettivo clima politico-psicologico-sociale che ha portato ciascuno di loro alla Casa Bianca e induce ad esaminare, principalmente con riguardo al rapporto transatlantico, le successive sfide internazionali affrontate da Carter ed a considerare quelle che attendono Trump. In entrambi i casi non mancano collegamenti sia con situazioni o contingenze che all’epoca hanno riguardato l’Italia sia con quelle che tra breve vedranno l’Italia coinvolta.
Molteplici fattori spiegano l’ascesa alla presidenza dell’allora dark horse (ovvero il poco conosciuto a livello nazionale) Jimmy Carter, dimostratosi non solo idealista con particolare attenzione ai diritti umani e civili, ma anche profondamente religioso in versione protestante battista e, per certi versi, populista. Questi tratti personali hanno caratterizzato il suo impegno nella campagna elettorale e, maggiormente, nel suo mandato quale capo dell’esecutivo.
Il suffragio che egli raccolse è cumulativamente riconducibile a:
- L’impatto dell’allora recente intervento militare statunitense ultradecennale del 1962-73 – accompagnato da disordinate e/o violente contestazioni soprattutto giovanili e da retinenza alla leva – nella guerra del Vietnam estesasi ad altre operazioni in area indocinese fino al 1975, guerra malcompresa e scarsamente sostenuta dalla popolazione in generale, guerra operativamente malcondotta e funestata da cinquantamila combattenti americani caduti e, infine ancor più grave, guerra politicamente persa, pur in assenza della disfatta militare statunitense sul campo.
- Il disagevole e astioso rapporto intrattenuto con i media e con il Congresso dalla presidenza – magistrale nella gestione delle difficili relazioni con la Cina comunista e l’Unione Sovietica ma avversamente bollata “imperiale” – di Richard Nixon (1969-74), coinvolto nel noto “scandalo Watergate” in violazione della corretta competizione partitica e quindi dimissionario prima di completare il secondo mandato, iniziato nel 1973, onde evitare le conseguenze penali della inesorabile condanna di competenza costituzionale del Congresso in materia di destituzione del capo dell’esecutivo.
- L’incolore presidenza, non priva di gaffe riconducibili a carenze cognitive, di Gerald Ford il quale come vicepresidente di Nixon gli succedette per la residua durata del secondo mandato e gli concesse la grazia per eventuali reati commessi, aspetto che contribuì pesantemente a precludere la vittoria di Ford nella contesa con Jimmy Carter per la Casa Bianca nel novembre del 1976.
- La provenienza di Carter, nativo e già governatore dello Stato della Georgia, così attraendo il voto del Sud profondo (Deep South), che non vantava l’elevazione di un proprio figlio alla presidenza federale da oltre un secolo, ossia dal 1848.
Inoltre, determinati atteggiamenti di Carter, più o meno populisti e forse sinceri oppure unicamente scenografici, collimavano con il dilagante spirito democratico e informale dei tempi, come si evince da vari episodi. In campagna elettorale rilasciò un’intervista proprio alla nota rivista Playboy in cui rivelava di aver commesso atti di lussuria con il pensiero. A seguito del rituale giuramento presidenziale a Capital Hill, sede del Congresso, percorse inaspettatamente parte del tragitto verso la Casa Bianca camminando mano in mano con la consorte. Poi, nei viaggi presidenziali si esibiva, anche lì senza precedenti, sulla scaletta dell’aereo Air Force One – riservato alla massima carica federale – reggendo come un comune passeggero il porta abiti appoggiato sulla spalla.
Fra i meriti in materia di politica estera, attribuitigli principalmente dai suoi estimatori, si annoverano la chiusura “morale” della lunga parentesi vietnamita concedendo la grazia a circa diecimila renitenti alla leva; l’inaugurazione delle relazioni diplomatiche con la Cina e la conseguente sottoscrizione di accordi bilaterali scientifici, culturali e commerciali; la sospensione di assistenza ad alcuni Paesi violatori dei diritti umani: Argentina, Uruguay ed Etiopia; gli accordi di Camp David del 1978 che condussero, dopo trent’anni, alla pace tra Egitto ed Israele, decisamente un passo avanti senza, però, risolvere il conflitto che tutt’oggi affligge il Medioriente.
Nel duplice contesto di politica estera e di difesa nazionale, risalta a sua volta la cosiddetta “Dottrina Carter”, pronunciata nel 1980 in risposta verbale all’invasione sovietica dell’Afghanistan per cui gli Stati Uniti si dichiaravano pronti a intervenire contro forze esterne che avessero tentato di controllare la strategica area del Golfo Persico.
Inoltre, sin dall’inizio del mandato presidenziale, ha ufficialmente primeggiato, quale colonna portante e fine primario della politica estera dell’Amministrazione Carter, la tutela dei diritti umani a livello universale, come dimostrato dalle ripetute denunce dirette all’Unione Sovietica e satelliti, nonché ad altri regimi, comunisti o meno, quali quello cubano, sudafricano e rodesiano.
In questo contesto è particolarmente interessante la politica impostata da Carter nei confronti del cosiddetto “eurocomunismo”, termine sorto tra il 1974 e il 1975 con riferimento ad alcuni partiti comunisti da tempo già esistenti in Europa occidentale e contemporaneamente fenomeno passibile di essere alternativamente interpretato come conversione ed adozione da parte di quei partiti – essenzialmente italiano, francese e spagnolo – della via parlamentare e del sistema democratico-pluralistico oppure come una tattica comunista per arrivare al potere.
Fra questi partiti sovrastava quello italiano a causa della notevole consistenza numerica del suo elettorato, della capillare struttura organizzativa e del conseguente peso sociopolitico, ma ancor di più a seguito della proposta di “compromesso storico” rivolta nel 1973 dal segretario-generale comunista Enrico Berlinguer alla maggioritaria Democrazia Cristiana, una parte della quale manifestava di accoglierlo favorevolmente.
Già decenni prima delle presidenze Nixon e Ford, ovvero sin dal 1947, vigeva da parte di Washington una politica di chiusura verso i partiti comunisti presenti nei Paesi democratici europei, nonché verso una loro eventuale partecipazione nei rispettivi governi, chiusura confermata dai minimi contatti intrattenuti con esponenti comunisti dalle rappresentanze diplomatiche americane all’estero e dal rifiuto di concedere loro visti d’ingresso negli Stati Uniti.
Anche dopo essere stati benevolmente qualificati per lo più in ambienti giornalistici e accademici come eurocomunisti, gli stessi partiti – con quello italiano in primo piano – venivano scrutati con sfiducia dalle istituzioni federali statunitensi per la mancata rinuncia al centralismo democratico nella loro sospetta “conversione”; per l’assenza di un’effettiva rottura con il blocco sovietico; per l’ininterrotto allineamento quasi totale con la politica estera di Mosca; e, non ultimo, per il non esaurito sentimento antiamericano, espresso in termini di antimperialismo.
Per quanto riguarda la difesa collettiva transatlantica, strumento essenziale necessitato dalla Guerra Fredda, prevaleva la granitica convinzione di Henry Kissinger, segretario di Stato sotto entrambi Nixon e Ford, per cui era inconcepibile, con riferimento all’Alleanza Atlantica, il mantenimento di forze statunitensi in Paesi europei nei quali si materializzasse la partecipazione comunista nell’esecutivo nazionale e, pertanto. anche la condivisione di aspetti programmatici ed operativi della NATO.
Questo eventuale risvolto riguardava in particolare l’Italia, sede del Comando delle Forze Alleate nel Sud Europa (Napoli), porto-base della nave ammiraglia della Sesta Flotta (Gaeta) e sito di ben 58 installazioni militari statunitensi su 199 dislocate in area mediterranea. Infatti, un’analisi del 1976 stesa da un alto funzionario della Defense Intelligence Agency attribuiva all’Italia primaria importanza in area mediterranea e la definiva essenziale per il controllo del rafforzamento navale sovietico nel Mediterraneo. Una relazione dell’anno successivo di provenienza congressuale elencava, con pesanti riserve, quali ipotetiche alternative Malta, Francia, Libia e Tunisia. Dette precisazioni e considerazioni scaturivano da due constatazioni: l’improvvisa accettazione della NATO (ostilmente avversata dal 1949 al 1975) espressa in modo equivoco o ambivalente dallo stesso Berlinguer e da altre significative figure del partito quali Giancarlo Pajetta, Lucio Lombardo Radice e Armando Cossutta e, parallelamente, la strumentalizzazione comunista della NATO nell’interesse della distensione a scapito della difesa.
Diverso fu almeno inizialmente l’atteggiamento di Carter, verosimilmente influenzato dai suoi ideali umanitari e speranzoso, seppure non ampiamente convinto, che l’eurocomunismo corrispondesse ad un processo di democratizzazione con la possibilità di condizionare in tal senso addirittura il blocco sovietico. In campagna elettorale si era espresso a favore di una politica di liberalizzazione dei visti d’ingresso negli Stati Uniti, tant’è vero che una volta assunta la carica presidenziale L’Unità poté inviare un corrispondente con base a Washington. Da presidente nominò ambasciatore in Italia James Gardner, propenso al dialogo; in aprile del 1977 fece rilasciare una dichiarazione secondo cui la partecipazione comunista nei governi esteri andava decisa dai loro elettori; e nel maggio successivo egli stesso, durante un discorso all’università cattolica Notre Dame dello Stato dell’Indiana, parlò di smisurata paura (inordinate fear) del comunismo. Parimenti significativa fu la sua scelta di Andrew Young come rappresentante americano alle Nazioni Unite, il quale dichiarò di non preoccuparsi del comunismo ma della discriminazione raziale.
Fra coloro della vecchia guardia che contestarono l’impostazione di Carter risaltano l’ex presidente Gerald Ford, il quale, invitato nell’ottobre del 1977 al Westminster College di Fulton nel Missouri (dove nel lontano 1946 fu coniata da Winston Churchill l’espressione “cortina di ferro”), equiparò in quella sede l’eurocomunismo ad uno “stalinismo camuffato” e l’ex segretario di Stato Kissinger, il quale ad un convegno organizzato dai noti think tanks American Enterprise Institute for Public Policy Research e Hoover Institution on War, Resolution, and Peace della Stanford University evocava nel giugno precedente le promesse democratiche e pluraliste fatte e non mantenute trent’anni prima dai partiti comunisti dell’Europa orientale.
Comunque, la politica di Carter sull’eurocomunismo, che si sostanziava in un atteggiamento iniziale ricordato come “non indifferenza e non interferenza”, si risolse il 12 gennaio 1978 con un chiarimento ed un almeno parziale aggiustamento della traiettoria quando il Dipartimento di Stato ufficialmente dichiarò: “Gli Stati Uniti e l’Italia hanno in comune profondi valori ed interessi democratici e noi non riteniamo che i comunisti condividano tali valori e interessi.” Questa dichiarazione comportò le critiche dell’Unione Sovietica, indice di solidarietà e non di contrasto con il Partito Comunista Italiano.
Per quanto riguarda l’Italia è pure opportuno tener presente che l’Amministrazione Carter coincise con la fase più critica del terrorismo italiano, incluso il sequestro e l’uccisione del presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro, evento le cui ricostruzioni dietrologiche hanno falsamente incolpato gli Stati Uniti con particolare riferimento a Kissinger pur non essendo più in carica. La documentazione indica, piuttosto, che Washington, rappresentata dall’Amministrazione Carter, non era in condizione di arrecare fattiva assistenza.
In novembre del 1980 – verso il tramonto del mandato presidenziale – indebolito dalla crisi energetica e dall’iperinflazione e travolto dalla mancata prevenzione della su ricordata invasione sovietica dell’Afghanistan, dallo spodestamento dello Scià di Persia, storico alleato statunitense, ad opera di rivoluzionari teocratici islamici pure nel 1979 e dalla collegata occupazione dell’ambasciata statunitense e presa di ostaggi per la durata di 444 giorni con l’aggravante dalla miseramente fallita missione di soccorso condotta dalle forze speciali statunitensi, Carter fu sconfitto alle urne dal repubblicano neoliberista Ronald Reagan nel tentativo di rielezione.
Come abitualmente avviene nella società americana, pure la conquista della Casa Bianca alle elezioni del 5 novembre dell’anno scorso da parte del repubblicano Donald Trump – non un dark horse come Carter ma politicamente ben noto in quanto già presidente degli Stati Uniti dal 2017 al 2021 – è attribuibile, ancorché non in pari misura, a pragmatismo e idealismo con l’aggiunta, specialmente in questo caso, di emotività da parte dell’elettorato.
Hanno sicuramente influito sulla vittoria di Trump alla presidenza e, parallelamente, del Partito Repubblicano in entrambe le camere del Congresso considerazioni strettamente economiche e, allo stesso tempo, hanno pesato ulteriori fattori, fra cui:
- Il clima bellico, globalmente rischioso, dovuto all’aggressione della Russia all’Ucraina, giuridicamente e tecnicamente inquadrabile come guerra tra due Stati, in corso dal 24 febbraio del 2022, nonché riconducibile alla distruttiva violenza, in corso dal 7 ottobre 2023, scatenata dall’attacco contro Israele da attori non statali quali Hamas (con sede a Gaza), Hezbollah (con sede in Libano) e Houthi (con sede in Yemen e operatività nel Mar Rosso), a cui si aggiungono azioni militari e operazioni speciali mirate, entrambe con intermittenza, tra Israele e Iran, sostenitore dei predetti attori non statali. Infatti, non desideroso di un coinvolgimento statunitense in terre lontane, come nel su ricordato caso vietnamita, l’elettorato vincente ha tenuto conto dell’assenza di pesanti interventi militari di Washington durante il precedente mandato di Trump e ha ritenuto di porre fede nelle asserzioni da lui fatte durante la seconda campagna elettorale secondo cui avrebbe con celerità risolto gravose situazioni del genere.
- La reazione conservatrice nei confronti di una ingombrante minoranza militante – fra l’altro radicata in ambienti pubblicistici e accademici – che già dal primo mandato presidenziale di Barak Obama, inaugurato nel 2009, mirava ad imporsi sulla maggioranza proclamando la priorità del politically correct e della cancel culture ed a proporre sfrenate pretese “lgbt” in contrasto con la tradizionale famiglia. Non si è trattato solo di un voto da sempre conservatore, associato alla maggioranza tuttora bianca, ma è stato rinforzato dal contributo tratto da segmenti delle comunità ispaniche, afroamericane o comunque di colore e da immigrati recentemente naturalizzatisi americani. Va, altresì, notato che quella parte dell’affluenza elettorale a favore di Trump riconducibile a convinzioni religiose non si è limitata all’integralismo di stampo cristiano protestante, ma è inoltre riscontrabile la presenza del voto cattolico. Non è avvalsa, per contro, la propaganda anti-Trump del cerchio radical-chic tipico del mondo dello spettacolo e dell’ambiente universitario.
- La preoccupazione dovuta ad un senso d’insicurezza attribuibile all’incremento di fenomeni di delinquenza comune e d’immigrazione irregolare. Anche qui il voto non è pervenuto unicamente da elettori tradizionalmente conservatori.
- La reiterata richiesta di Trump affinché gli altri Paesi membri della NATO, la cui dipendenza da Washington per la difesa collettiva è fondamentale, si attengano perlomeno all’impegno minimale – da loro assunto e non mantenuto – del versamento del due percento del PIL ai bilanci nazionali della Difesa. Nella convinzione che si tratti di sfruttamento degli Stati Uniti da parte degli alleati, quella parte dell’elettorato americano inconsapevole del fatto che è comunque nell’interesse dell’alleato più potente contribuire in maggior misura alla difesa collettiva, ha accolto con convinzione la richiesta di Trump.
Per giunta, pur caratterialmente privi di affinità tanto Carter quanto Trump, ha avuto un ruolo in entrambi i casi la rispettiva personalità dei candidati. Trump, da parte sua, ha voluto proiettare la figura di “uomo forte” portato allo slancio e munito di linguaggio altrettanto forte, senza curarsi della raffinatezza di espressione e dell’etichetta diplomatica, aspetto che ha raggiunto positivamente una parte del suo elettorato, mentre un’altra parte dello stesso elettorato lo ha solo tollerato ponendo la precedenza sui fini auspicati. Del resto, secondo un’abbastanza condivisa mentalità, la figura di uomo forte si abbina bene con il concetto di America First. Trump è stato poi avvantaggiato dal fallito attentato mortale a cui ha immediatamente reagito imperiosamente gridando Fight, fight, fight.
Dalla elezione – o, meglio, rielezione di Trump dopo quattro anni di assenza dalla Casa Bianca – sorgono soprattutto incertezze con riguardo al rapporto di difesa transatlantico data l’apparente predisposizione neoisolazionista del neoeletto al di là dell’effetto sullo scambio commerciale internazionale qualora prevalesse il protezionismo.
Palesemente preoccupante è il rischio di una sostanziale riduzione nell’apporto d’Oltreoceano alla NATO, ovvero la cosiddetta “stampella” statunitense che rimane indispensabile in mancanza di adeguati mezzi e di una compatta politica estera e di difesa comune, accompagnata da un avanzato sviluppo tecnologico, da parte dell’Unione Europea.
Durante la Guerra Fredda – conflitto che nella sua totalità abbracciava aspetti ideologici, politici ed economici con rischi di uno scontro militare ed eventualmente nucleare – la politica di difesa di Washington, anche in considerazione della duplice sponda oceanica statunitense, atlantica e pacifica, prevedeva la possibilità e capacità di combattere contemporaneamente su due fronti con l’aggiunta di un intervento altrove, il cosiddetto schema di two and one-half wars, ossia “due guerre e mezzo”.
Mentre quella consolidata impostazione perdurava consistentemente coi tempi nelle capacità e intenti statunitensi sotto l’Amministrazione Carter, è d’altro canto concepibile che l’Amministrazione Trump se ne scosti, a scapito dell’Europa, nell’attuale contesto storico caratterizzato da molteplici “fronti” presenti e potenziali differenziabili dall’allora confronto bipolare Est-Ovest.
Oggi non si tratta unicamente della minaccia posta all’Europa democratica e pluralista in modo concreto da un altro “uomo forte” di nome Vladimir Putin con ambizioni espansionistiche che vanno oltre l’Ucraina. Vanno aggiunte le molteplici forme di conflittualità non convenzionale poste in atto da attori statali e non statali di varia matrice. A tale proposito è opportuno ricordare che di fronte agli attacchi terroristici transnazionali che colpirono New York e Washington l’11 settembre 2001 fu fatto ricorso all’Art. 5 del Patto Atlantico che considera l’attacco contro uno Stato membro come un attacco contro tutti gli altri contraenti. Anche qui emerge l’importanza della continuità e credibilità della NATO.
Per la sicurezza dell’Italia è particolarmente auspicabile che rimanga saldo il legame transatlantico rappresentato dalla NATO. Risalta il fatto che, mentre nel corso della Guerra Fredda la penisola italica costituiva una componente fondamentale del fianco meridionale della NATO e allo stesso tempo un elemento basilare per il controllo del Mediterraneo, l’Italia oggi rappresenta più significativamente un fronte contrapposto a rischi presenti ed in fieri di varia natura riconducibili a provenienze mediorientali, nordafricane e balcaniche.
Malauguratamente l’Italia, che secondo autorevoli dichiarazioni attribuite al dicastero della Difesa non potrebbe respingere da sola determinate aggressioni belliche, è funestata al suo interno da elementi antimilitaristi e spesso da sedicenti pacifisti che sfruttano eterogenee proteste sfocianti in manifestazioni, anche violente, di ogni genere e, in numerosi casi, da aggregazioni precipuamente anti-Nato con l’aderenza di giornalisti, attori, musicisti, saggisti, docenti universitari, esponenti politici ed altri noti personaggi predisposti in tal senso.
Secondo fonti di stampa nazionali, l’Italia attualmente ospita 120 strutture USA e NATO e “ordigni nucleari” ad Aviano. Le stesse fonti reputano l’Italia “strategica per gli Stati Uniti” e sostengono che “Trump non può rinunciare a [quelle] basi e missioni”. Auspicabilmente questo comporterebbe quantomeno a livello bilaterale la continuità del rapporto difensivo con gli Stati Uniti.
Tuttavia, nell’incertezza della continuità dell’ombrello statunitense, sia nell’immediato sia nel lungo termine, rimane irrinunciabile un solido adeguamento della difesa comune facente capo all’Unione Europea e con la partecipazione di altri Paesi democratici del continente.
* Il prof. Vittorfranco Pisano è stato senior foreign law specialist nella divisione di diritto europeo presso il Congresso, parlamento federale statunitense, dal maggio del 1976 al maggio del 1982, incarico che ha fra l’altro comportato ricerche ed analisi per le commissioni parlamentari competenti per l’intelligence. Nello stesso periodo ha mantenuto lo status militare svolgendo mansioni quale ufficiale superiore dello U.S. Army, con specializzazione geopolitica, presso il Pentagono. Dal 1977 al 1981 ha parallelamente tenuto corsi di scienze politiche alla Georgetown University di Washington riguardanti l’Unione Sovietica, l’eurocomunismo e le istituzioni italiane e dei Paesi latino-europei.
Foto: U.S. DoD
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